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Channel: Chimica Generale – Chimicamo
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Serie spettrochimica

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Studi di spettri elettronici eseguiti sui composti di coordinazione in cui sono presenti metalli di transizione hanno permesso di ottenere un elenco sia dei leganti che degli ioni metallici quando danno origine ai complessi in ordine crescente di campo che possono generare.

Si parte dall’assunto che il metallo sia in forma ionica e i leganti si legano ad esso per attrazione elettrostatica: lo ione metallico è costituito da un nucleo circondato da elettroni che nell’ultimo livello si trovano nell’orbitale d, mentre i leganti vengono assunti come cariche negative e puntiformi.

A seconda del numero di elettroni presenti nel catione metallico si verifica un diverso campo elettrostatico dei leganti che si avvicinano ad esso.

Vi sono 5 orbitali degeneri di tipo d: dxy, dxz, dyz, dx2- y2, dz2:

orbitali d

Per gli orbitali dxy, dxz, dyz la massima probabilità di trovare gli elettroni è a 45° rispetto agli assi cartesiani mentre per gli orbitali dx2- y2, dz2 la massima probabilità è lungo gli assi.

Se lo ione è circondato da un campo avente simmetria sferica di cariche negative, a causa dell’effetto repulsivo tra il campo negativo e gli elettroni che occupano l’orbitale d si verifica un aumento dell’energia degli orbitali d nella stessa misura; se invece la simmetria è di tipo ottaedrico quando i leganti si avvicinano allo ione metallico gli elettroni d vengono respinti dalle cariche puntiformi con un effetto destabilizzante che dipende dalla forma del complesso e dalla direzionalità degli orbitali d.

Se i sei legami sono posti nelle direzioni di un sistema di assi cartesiano a causa della loro simmetria gli orbitali

dx2- y2, dz2 puntano direttamente verso i leganti mentre gli altri tre sono diretti tra i leganti in quanto presentano i lobi lungo le bisettrici tra i due assi.

Si verifica quindi una maggiore destabilizzazione degli elettroni che si trovano in dx2- y2 e dz2 rispetto a quelli che si trovano in dxy, dxz, dyz, in quanto la prima coppia punta direttamente verso i leganti verso i quali c’è una maggior repulsione rispetto a quanto si verifica per la seconda coppia.

Il risultato è che gli elettroni d inizialmente degeneri si suddividono in due gruppi: il primo costituito dagli orbitali  dx2- y2, dz2 doppiamente degenere  a energia maggiore (eg) e il secondo tre volte degenere costituito dagli orbitali dxy, dxz, dyz a energia minore (t2g).

Poiché l’energia media degli orbitali si mantiene costante all’innalzamento di energia degli orbitali dx2- y2, dz2 corrisponde un abbassamento di energia degli orbitali dxy, dxz, dyz.

La differenza di energia, detta di separazione del campo dei leganti, che viene in genere indicata con Δ e nel caso di simmetria ottaedrica con Δo costituisce una misura della repulsione elettrostatica tra gli elettroni d dello ione metallico e le cariche puntiformi dei leganti.

I fattori che influenzano il valore di Δ sono:

I  leganti inducono una separazione di campo cristallino diversa e pertanto quelli che provocano un elevato valore di Δ vengono detti leganti a campo forte mentre quelli che provocano un Δ inferiore vengono detti leganti a campo debole.

I leganti vengono quindi classificati in base alla loro capacità di provocare una separazione di campo cristallino secondo una serie detta serie spettrochimica:

serie spettrochimica


Acido cloroaurico

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L’acido tetracloroaurico più noto come acido cloroaurico è un acido monoprotico forte e ha formula HAuCl4 che viene usato tradizionalmente nei processi di raffinazione dell’oro.

Nonostante l’oro sia un metallo scarsamente reattivo stante il suo potenziale normale di riduzione che vale + 1.40 V alla temperatura di 25°C esso viene disciolto in acqua regia in cui all’azione acida di HCl viene associata quella ossidante di HNO3 secondo la reazione:

Au + HNO3 + 4 HCl → HAuCl4 + NO + 2 H2O

con formazione dell’acido cloroaurico che cristallizza sotto forma di cristalli aghiformi di colore giallo-arancio.

Questa reazione fu sfruttata dal chimico ungherese George Charles de Hevesy per sciogliere le medaglie d’oro vinte dai fisici tedeschi Max von Laue e James Franck in occasione del conferimento del Premio Nobel quando essi per salvarle dai nazisti riuscirono a farle recapitare a Niels Bohr in Danimarca.

L’ acido  cloroaurico in soluzione acquosa idrolizza trasformandosi in idrossido di oro (III):
HAuCl4 + 3 H2O → Au(OH)3 + 4 HCl

L’acido cloroaurico può inoltre essere ottenuto:

  • dall’elettrolisi dell’oro in acido cloridrico:

2 Au + 8 HCl →2 HAuCl4 + 3 H2

  • dall’azione del cloro in presenza di HCl

2 Au + 3 Cl2 + 2 HCl → 2 HAuCl4

Questa reazione viene utilizzata per recuperare l’oro da componenti elettronici.

L’acido cloroaurico viene utilizzato per ottenere nanoparticelle d’oro (AuNPs) con diametro da 5 a 400 nm i cui campi di applicazione sono sempre più numerosi sia in campo biomedico come biomarcatori o nei biovetri usati per la ricostruzione delle ossa che in campo industriale come catalizzatori o come sensori colorimetrici.

Le nanoparticelle d’oro vengono sintetizzate con il metodo introdotto a J. Turkevich nel 1951 e successivamente perfezionato da G. Frens. Per la realizzazione di questa reazione una soluzione di acido cloroaurico che è di colore giallo oro viene portata all’ebollizione e successivamente viene fatta reagire con acido citrico C6H8O7 con formazione di acido chetoglucarico C5H6O5 e oro colloidale. Quando la reazione è avvenuta la soluzione diviene di colore rosso vino:

2 HAuCl4 + 3 C6H8O7 → 2 Au + 3 C5H6O5 + 8 HCl + 3 CO2

 

Platino

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Il platino è un metallo di transizione appartenente al Gruppo 10 e al 6° Periodo con configurazione elettronica [Xe] 4f14 5d9 6s1.

ll platino unitamente al rutenio, rodio, palladio, osmio e iridio che occupano posizioni contigue nella Tavola Periodica fa parte dei metalli del gruppo del platino caratterizzati da proprietà fisiche e chimiche simili e presenti negli stessi giacimenti minerari.

E’ un metallo di colore bianco-argenteo, nobile, prezioso, brillante, scarsamente reattivo, stabile, resistente alla corrosione; viene rinvenuto in alcuni minerali contenenti nichel o rame ma si trova generalmente allo stato nativo nei depositi alluvionali.

Sono stati rinvenuti oggetti in leghe di platino risalenti al XII secolo a.C. presso le antiche civiltà Egizie mentre è databile al VII secolo a.C. il sarcofago di Tebe della principessa Shapenapit  decorato con lamine di oro, di argento e di una lega di platino.

Già noto alle popolazioni dell’America Latina in età precolombiana il platino venne considerato, dai conquistatori spagnoli come un’impurezza dell’argento e gli attribuirono il nome di platina dispregiativo del sostantivo plata che significa argento.

Il platino ha numeri di ossidazione +6, +5, +4, +3, +2, +1, -1, -2 e -3 sebbene i numeri di ossidazione più comuni siano +2 e +4.

Stante la sua inerzia chimica il platino viene attaccato dall’acqua regia secondo la reazione complessiva per dare l’acido cloroplatinico:

Pt(s) + 4 HNO3(aq) + 6 HCl(aq) → H2PtCl6(aq) + 4 NO2(g) + 4 H2O(l)

Dall’acido cloroplatinico per reazione con il nitrato di sodio si ottiene l’ossido di platino (IV) noto come catalizzatore di Adam utilizzato nelle reazioni di idrogenazione, deidrogenazione, ossidazione e di idrogenolisi:

H2PtCl6 + 6 NaNO3 → Pt(NO3)4 + 6 NaCl + 2 HNO3

Il nitrato di platino (IV) ottenuto viene riscaldato e, nella reazione di decomposizione, si ottiene NO2 e PtO2:

Pt(NO3)4 → PtO2 + NO2+ O2

Dalla decomposizione termica dell’acido cloroplatinico si ottiene il cloruro di platino (IV):

H2PtCl6  → PtCl4 + 2 HCl

Se l’acido cloridrico prodotto viene allontanato in soluzione acquosa il cloruro di platino (IV) cristallizza sotto forma di cristalli rossi come cloruro di platino (IV) pentaidrato.

Riscaldando in presenza di aria a una temperatura di 350°C dalla decomposizione termica dell’acido cloroplatinico si ottiene il cloruro di platino (II):

H2PtCl6  → PtCl2 + Cl2  + 2 HCl

Il cloruro di platino (II) dà luogo a reazioni con i leganti:

PtCl2 + 2 L → PtCl2L2

Nel caso il legante sia l’ammoniaca si ottiene il cisplatino PtCl2(NH3)2 agente usato nella chemioterapia.

Circa il 40% della produzione mondiale di platino viene usata nel campo della gioielleria in cui viene utilizzato prevalentemente in lega con l’oro.

Stante la sua resistenza alla corrosione e alla sua stabilità ad alta temperatura il platino viene utilizzato quale catalizzatore ed in particolare, insieme al palladio e al rodio, nei convertitori catalitici delle autovetture in cui il monossido di carbonio e gli idrocarburi incombusti vengono trasformati in biossido di carbonio.

Leghe di platino e osmio vengono utilizzate per pace-maker e valvole cardiache; leghe di platino sono usate in attrezzi chirurgici, negli utensili da laboratorio, nei cavi elettrici di resistenza e nei punti di contatto elettrico.

Vengono inoltre realizzati crogioli in platino che, rispetto alla ceramica, sono inerti agli attacchi degli acidi e delle basi e, grazie all’elevato punto di fusione del platino, vengono utilizzate nell’analisi termogravimetrica e nella calorimetria differenziale a scansione.

Con una lega di platino e iridio nel 1875 sono stati costruiti dalla Commissione internazionale dei pesi e misure il metro e il chilogrammo campioni che si conservano a Parigi.

Nanoparticelle d’oro

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L’oro è il metallo che più di ogni altro è stato considerato il più prezioso e sin dagli albori della civiltà ha affascinato gli uomini costituendo il simbolo della ricchezza.

Le caratteristiche dell’oro che non si corrode né si scurisce e che non tende ad interagire con altri elementi indussero le antiche popolazioni a ritenerlo come una panacea per la cura delle malattie. Sembra che già nel 2500 a.C. i Cinesi lo adoperassero per il trattamento delle malattie delle articolazioni, perdita di coscienza, febbre, svenimenti, vaiolo, ulcere della pelle, morbillo e convulsioni.

Gli antichi Egizi 5000 anni fa lo usavano in campo odontoiatrico e ritenevano che, una volta ingerito, stimolasse il corpo e la mente.

Solo secoli più tardi fu il medico e alchimista tedesco Paracelso, che costituisce una delle figure più rappresentative del Rinascimento, a preparare una soluzione di oro colloidale che riteneva potesse curare i disturbi fisici, mentali e spirituali.

Fu solo nel 1850 che, grazie al lavoro di Michael Faraday, si iniziarono ad avere le prime conoscenze scientifiche dell’oro colloidale.

L’oro colloidale è costituito da una sospensione stabile in cui sono presenti particelle d’oro di dimensioni inferiori al micron.

Le nanoparticelle, date le loro dimensioni vicine alle dimensioni atomiche, mostrano proprietà fisiche diverse dal metallo di cui sono costituite come ad esempio la colorazione che nelle nanoparticelle assume una colorazione che va dal rosso al viola.

Per ottenere le nanoparticelle si parte da una soluzione di acido cloroaurico HAuCl4 in cui l’oro ha numero di ossidazione +3; a questa soluzione, sotto agitazione, viene aggiunto un riducente e l’oro (III) viene ridotto a oro metallico.

Mano a mano che si formano gli atomi d’oro la soluzione diventa sovrasatura e l’oro inizia a precipitare sotto forma di particelle di dimensioni submicrometriche.

Per evitare che le particelle possano formare aggregati viene aggiunto un agente stabilizzante che aderisce alla superficie delle particelle.

Il primo metodo per ottenere nanoparticelle d’oro (Au-NPs) che rimane quello più semplice ed è adatto ad ottenere particelle sferiche delle dimensioni di 10-20 nm si deve a J. Turkevich che lo mise a punto nel 1951.

Dopo l’attacco dell’oro metallico da parte dell’acqua regia e formazione dell’acido cloroaurico la soluzione viene riscaldata fino all’ebollizione e successivamente vengono aggiunti 10 mL di una soluzione di citrato all’1% mantenendo sotto agitazione per far rimanere la soluzione omogenea.

Il citrato agisce inizialmente da riducente e, una volta che si sono formate le nanoparticelle viene adsorbito da esse formando uno stato carico negativamente che ne impedisce l’aggregazione.

Al posto del citrato, quale agente riducente, si può usare acido ascorbico o boroidruro.

Quale stabilizzante possono essere usati ammine, tioli, fosfine, polimeri o carbossilati.

Dopo circa un minuto e per i successivi 2-3 minuti si osserva una colorazione grigio tenue che successivamente diventa prima color vino e successivamente color rosso.

La reazione può essere così schematizzata tenendo conto che lo ione citrato è C6H5O73-:

2 AuCl4+ C6H5O73- + 2 H2O → 2 Au + 3 CH2O + 3 CO2 + 8 Cl + 3 H+

Un altro metodo per l’ottenimento di nanoparticelle risale al 1990 ed è dovuto a Brust in cui si ottengono le nanoparticelle in solventi organici non miscibili con l’acqua come, ad esempio, il toluene.

Il metodo Brust prevede l’utilizzo di due riducenti ovvero un legante tiolico che ha anche la funzione di formare il monostrato organico e il sodio boroidruro che esercita anche la funzione di anticoagulante per un processo di riduzione di Au(III) prima a Au(I) e successivamente a Au,

Il processo avviene in due fasi ovvero una fase acquosa in cui è solubile l’acido cloroaurico e una fase organica in cui sono solubili i leganti tiolici.

Per trasferire HAuCl4 dalla fase acquosa alla fase organica è necessario un trasferitore di fase che nella fattispecie è il tetraottilammonio bromuro (TOABr) che presenta un gruppo idrofobo e un gruppo idrofilo.

I leganti tiolici si legano ad Au(III)  riducendolo ad Au(I) e instaurando legami S-Au(I). L’aggiunta del secondo riducente NaBH4, serve a ridurre l’oro da  Au(I) a Au(0), formando il nucleo metallico già ricoperto da tiolo.

Le nanoparticelle d’oro hanno enormi potenzialità e su di esse si concentrano ancora ricerche; possono essere usate tra l’altro come catalizzatori, come substrato su cui vengono depositati sostanze da analizzare tramite la spettroscopia Raman amplificata da superfici ma gli studi maggiori avvengono in campo medico per la cura di patologie quali l’artrite reumatoide e il morbo di Alzheimer.

Stante la caratteristica delle nanoparticelle d’oro di assorbire la luce nel vicino infrarosso (900-1200 nm) regione in cui tessuti biologici mostrano un’elevata trasmissione della radiazione elettromagnetica esse possono essere impiegate nella lotta al cancro.

Se opportunamente funzionalizzate per riconoscere recettori presenti solo nei tessuti patologici, possono accumularsi nei tessuti malati e tramite la fototerapia possono assorbire energia luminosa convertendola in energia termica distruggendo così le cellule malate.

Iridio

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L’iridio è un metallo di transizione appartenente al Gruppo 9 e al 6° Periodo con configurazione elettronica [Xe] 4f14 5d7 6s2.

L’iridio unitamente al platino, rutenio, rodio, palladio e osmio che occupano posizioni contigue nella Tavola Periodica fa parte dei metalli del gruppo del platino caratterizzati da proprietà fisiche e chimiche simili e presenti negli stessi giacimenti minerari.

E’ un metallo duro ma fragile di colore bianco-argenteo con venature giallastre, resistente alla corrosione ed è l’unico metallo ad avere buone proprietà meccaniche anche al di sopra dei 1600°C e diventa duttile e facilmente lavorabile a una temperatura tra i 1200 e i 1500 °C.

Il metallo è praticamente insolubile negli acidi e non è attaccato dall’acqua regia ma può essere solubilizzato in acido cloridricoconcentrato in presenza di perclorato di sodio a una temperatura tra i 125 e i 150°C.

Fu scoperto nel 1803 dal chimico britannico Smithson Tennant insieme all’osmio quando, dopo aver attaccato il platino con acqua regia fu notato un residuo insolubile di colore nero.

Fu chiamato iridio in onore della dea Iride personificazione, secondo la mitologia greca, dell’arcobaleno per i colori dei suoi sali.

Ha numeri di ossidazione −3, −1, 0, + 1, + 2, + 3, + 4, + 5, + 6, + 7,+ 8, + 9 anche se i numeri di ossidazione più comuni sono +1,+3, +4.

L’iridio viene separato dagli altri metalli appartenenti al gruppo del platino come esacloroiridato di ammonio (NH4)2[IrCl6].

Gli altri metalli infatti sotto forma di cloruri formano solfuri insolubili quando vengono fatti reagire con il solfuro di idrogeno mentre lo ione esacloroiridato non dà questo tipo di reazione e viene ridotto a iridio metallico in corrente di idrogeno ad alta temperatura.

(NH4)2[IrCl6] + 2 H2 → Ir + 6 HCl + 2 NH3

L’iridio reagisce con gli alogeni e forma composti dove presenta il numero di ossidazione +3 reagendo con essi:

2 Ir + 3 X2 → 2 IrX3

Gli alogenuri di iridio (III) sono caratterizzati da diverse colorazioni: IrF3 è nero, IrCl3 è rosso, IrBr3 è rosso-marrone mentre IrI3 è marrone.

Gli unici alogenuri di iridio con numero di ossidazione diverso da + 3 sono i fluoruri ovvero IrF4, IrF5 ed in particolare IrF6 solido giallo molto reattivo che si decompone in acqua e può essere ridotto a fluoruro di iridio (IV).

L’iridio forma ossidi tra cui il biossido di iridio IrO2 che è una polvere di colore scuro utilizzato per rivestimenti di elettrodi anodici; l’ossido di iridio (III) polvere di colore blu scuro viene ossidato da HNO2 e biossido di iridio.

L’acido esacloroiridico (IV) H2IrCl4 e il suo sale di ammonio sono i precursori di molti composti dell’iridio; lo ione IrCl42- di colore marrone scuro può essere ridotto a IrCl43-.

L’iridio si lega al carbonio per formare metallo carbonili come il dodecacarbonile di tetrairidio Ir4(CO)12 o il complesso di Vaska avente formula trans-[Ir(CO)Cl(PPh3)2], complesso organometallico in cui uno ione centrale di Ir(I) è legato con due leganti trifenilfosfina, un carbonile e uno ione cloruro

vaska

Tra i complessi dell’iridio vi è il (ppy)2Ir(phen) in cui l’iridio forma un complesso cationico con due fenilpiridina e un legante diiminico

ppy)2Ir(phen)

che è un fluoroforo ovvero una specie che, dopo aver assorbito fotoni a una determinata lunghezza d’onda, mostra fluorescenza.

I complessi dell’iridio che mostrano fluorescenza vengono utilizzati nella produzione di OLED ovvero di diodi organici ad emissione di luce per realizzare display a colori con la capacità di emettere luce propria.

Un altro complesso dell’iridio è l’iridio pentametilciclopentalienil dicloruro [(C5(CH3)5IrCl2)]2  che è il precursore di molti catalizzatori.

iridio pentametilciclopentalienil dicloruro

Per la sua somiglianza con il platino che forma il cisplatino utilizzato nella chemioterapia i composti dell’iridio vengono studiati per valutare la loro efficacia nella cura del cancro.

L’iridio vene usato nelle leghe ed in particolare con il platino per conferire maggiore durezza; inoltre le leghe platino iridio presentano un coefficiente termico nullo motivo per il quale con una lega di platino e iridio nel 1875 sono stati costruiti dalla Commissione internazionale dei pesi e misure il metro e il chilogrammo campioni che si conservano a Parigi. Le leghe platino-iridio vengono inoltre utilizzate nei contatti elettrici.

L’iridio viene inoltre utilizzato in lega con l’osmio per i pennini delle penne stilografiche e per i perni delle bussole mentre nei pennini in oro la punta, che è maggiormente soggetta a sollecitazioni meccaniche è realizzata in iridio.

 

Bronzo

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Il bronzo è la prima lega metallica conosciuta dall’umanità utilizzata per forgiare armi e utensili e usata al posto del rame che, per la sua fragilità, era poco adatto a questi scopi.

Sebbene siano stati rinvenuti reperti in bronzo risalenti a circa 7000 anni fa in Medio Oriente e in Cina l’età del bronzo in Europa inizia nel 3500 a.C. il bronzo fu largamente utilizzato per la realizzazione di opere d’arte come i bronzi di Riace, la statua di Zeus e l’auriga di Delfi che hanno sfidato i secoli giungendo fino a noi.

Simbolo di maestosità, regalità e durevolezza viene citato da Orazio in cui il poeta ricorda di aver compiuto un’opera che gli anni non scalfiranno Exegi monumentum aere perennius.” (Ho innalzato un monumento più duraturo del bronzo).

Fregi artistici utilizzati in mobili di lusso a partire dal ‘700 venivano utilizzati in bronzo dorato al mercurio: l’oggetto da dorare veniva spruzzato con acido nitrico e successivamente bagnato con un composto di doratura costituito da oro e mercurio e posto in forno dove il mercurio evapora e l’oro rimane applicato sulla superficie,

Il bronzo è una lega ramestagno ma può contenere altre specie come manganese, alluminio, nichel, fosforo, silicio, arsenico e zinco.

Attualmente il bronzo è generalmente costituito dall’88% di rame e dal 12% di stagno ma, a seconda degli utilizzi, la composizione varia sia per quanto attiene il tenore dei due principali elementi sia per l’aggiunta di altri.

Sulla base dei componenti presenti il bronzo presenta caratteristiche peculiari che ne differenziano i campi di impiego: in campo industriale si realizzano infatti dalle boccole ai bronzini, apparecchi idraulici, cuscinetti, ingranaggi, ruote dentate fino a componenti per l’arredamento.

Lo stagno conferisce durezza e in lega con il rame ne diminuisce la tipica malleabilità infatti leghe con un maggior tenore di stagno sono più dure ma meno malleabili.

La durezza del bronzo è dovuta al fatto che il rame e lo stagno presentano raggi atomici di dimensioni simili quindi il bronzo è una lega di sostituzione.  Poiché nelle leghe di sostituzione sussistono sia pur lievi differenze di dimensioni e di struttura elettronica, gli atomi del soluto ovvero dello stagno distorcono la forma del reticolo e ostacolano il flusso degli elettroni. La distorsione del reticolo rende più difficile lo scorrimento dei piani atomici e, di conseguenza, mentre godrà di minore conduttività termica ed elettrica, la lega di sostituzione sarà più dura e più forte.

Da un punto di vista chimico la superficie del bronzo tende a corrodersi sebbene esso mostri una buona resistenza a atmosfere industriali e marine e se opportunamente rivestito anche ad acidi deboli.

E’ invece scarsamente resistente a composti come ammoniaca, cianuri ed è sensibile all’inquinamento urbano; la presenza di sostanze chimiche nell’atmosfera come ossidi di azoto e composti contenenti zolfo costituiscono infatti una delle maggiori cause di deterioramento.

La corrosione del bronzo procede a stadi influenzati dalla composizione della lega, dalle condizioni atmosferiche e da eventuali trattamenti protettivi fatti preventivamente sul bronzo. Nella prima fase avviene l’ossidazione del rame con formazione di un film sottile costituito prevalentemente da ossido di rame che tuttavia può fungere da barriera protettiva nei confronti di agenti chimici. La presenza di solfuri, tuttavia, altera la composizione del film protettivo danneggiandolo.

Nella seconda fase avviene sulla superficie esposta la formazione di solfato di rame di colore verde mentre nella terza i composti formatisi in superficie subiscono ulteriori reazioni con formazione di una crosta vera e propria di colore nero. Successivamente queste reazioni avvengono anche al di sotto della superficie accelerate dalla presenza di cloruri e nell’ultima fase vi è la conversione di tutta la superficie con formazione di una crosta blu che presenta fessure e porosità che favoriscono il procedere della corrosione.

La malattia del bronzo che colpisce antichi manufatti è dovuta principalmente al cloruro di rame (I) che a contatto con l’ossigeno e l’umidità si trasforma producendo acido cloridrico che attacca il bronzo producendo così un processo ciclico nuovamente cloruro di rame (I).

A dispetto di quanto si riteneva il bonzo pur dotato di caratteristiche peculiari non è poi così duraturo ma certamente Orazio non poteva conoscere la chimica e tantomeno i danni da inquinamento ambientale.

Palladio

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Il palladio è un metallo di transizione appartenente al Gruppo 10 e al 5° Periodo avente configurazione elettronica [Kr] 4d10.

Il palladio unitamente al platino, rutenio, rodio, iridio e osmio che occupano posizioni contigue nella Tavola Periodica fa parte dei metalli del gruppo del platino caratterizzati da proprietà fisiche e chimiche simili e presenti negli stessi giacimenti minerari e tra essi è quello che ha minore densità e punto di fusione minore.

Il palladio è tenero, di colore bianco-argenteo, non reagisce con l’ossigeno a temperatura ambiente quindi non tende a ricoprirsi di uno strato di ossido mentre a una temperatura di 800°C dà luogo alla formazione di ossido di palladio (II).

Si solubilizza in acido nitrico concentrato, in acido solforico a caldo e in acqua regia.

Fu scoperto nel 1903 dal chimico e fisico britannico William Hyde Wollaston nell’ambito dei suoi studi sul platino. Dopo aver disciolto il minerale in acqua regia dapprima neutralizzò la soluzione con idrossido di sodio e poi la trattò con cloruro di ammonio ottenendo un precipitato di esacloroplatinato di ammonio (NH4)2[PtCl6].

Alla soluzione fu poi aggiunto cianuro di mercurio che diede luogo alla formazione del cianuro di palladio composto che ha una scarsissima solubilità in acqua. Dopo filtrazione e ottenimento del cianuro di palladio solido quest’ultimo fu sottoposto a riscaldamento a seguito del quale fu eliminato il cianuro con ottenimento del palladio.

Wollaston comprese di aver scoperto un nuovo elemento ma non lo comunicò alla comunità scientifica e lo mise in vendita come “nuovo argento”. Il chimico irlandese Richard Chenevix studiò il campione e dichiarò che esso non fera altro che una lega di mercurio e platino. Allora Wollaston offrì una cospicua somma di denaro a chi fosse riuscito ad isolare il platino da questo campione e, non avendo avuto alcuna risposta, ne comunicò la scoperta.

Il palladio presenta numero di ossidazione 0 oltre che quando non è combinato anche in numerosi complessi aventi formula PdL2, PdL3 e PdL4.

Il palladio ha inoltre numeri di ossidazione che vanno da +1 a +6 sebbene nei composti più comuni abbia numero di ossidazione +2.

Tra i composti più comuni del palladio vi è il cloruro di palladio (II) preparato solubilizzando il palladio in acqua regia o in acido cloridrico in presenza di cloro.

Esso oltre ad essere utilizzato per ottenere altri composti del palladio viene utilizzato nei rivelatori di monossido di carbonio con il quale reagisce secondo la reazione:

PdCl2 + CO + H2O → Pd + CO2 + 2 HCl

Dal cloruro di platino, per trattamento con nitrato di potassio, si ottiene l’ossido di platino (II) secondo la reazione:

2 PdCl2 + 4 KNO3 →2  PdO + 4 KCl +4  NO2 + O2

L’ossido di platino viene utilizzato quale catalizzatore in molte sintesi organiche tra cui l’idrogenazione catalitica.

Il palladio viene utilizzato nei convertitori catalitici specie nelle autovetture diesel e trova impiego quale catalizzatore in numerose reazioni di idrogenazione, deidrogenazione, ossidazione e idrolisi e nella produzione di acetato di vinile monomero di partenza del polivinilacetato. Il cloruro di palladio viene impiegato quale catalizzatore omogeneo in molti processi industriali tra cui l’ossidazione dell’etilene ad acetaldeide nel processo Wacker.

Il palladio viene usato nelle candele per motori aeronautici, in leghe per usi odontoiatrici e per oggetti preziosi, per la fabbricazione di alcuni orologi, nella fabbricazione di alcuni strumenti chirurgici e di contatti elettrici.

Il palladio costituisce l’elettrodo nei misuratori di glucosio presente nel sangue: nella striscetta è contenuta la glucosio ossidasi che ossida il glucosio provocando la riduzione dell’esacianoferrato (III) di potassio. Applicando una tensione al misuratore, in presenza dell’elettrodo di palladio, l’esacianoferrato(II) viene riossidato provocando un flusso di elettroni direttamente proporzionale alla concentrazione di glucosio presente nel campione e quindi misurabile.

Nei tempi più recenti si sta approfondendo la chimica dei complessi del palladio per la terapia adiuvante del cancro. Alcuni farmaci come il cisplatino hanno diversi svantaggi tra cui effetti collaterali, limitata solubilità in mezzi acquosi, tossicità, scarsa selettività e spesso non efficaci in alcuni tipi di tumore. Si è quindi proceduto più che a modificare la molecola antitumorale a cambiare lo ione metallico centrale e, per l’analogia strutturale con il platino, è stato individuato il palladio e sembra che i risultati siano incoraggianti.

 

Il serpente del faraone

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Una reazione chimica coinvolge la trasformazione di uno o più reagenti in prodotti di reazione attraverso la rottura di legami e la formazione di altri.

Non sempre le reazioni chimiche sono visibili ma spesso si possono avere degli indizi per poter riconoscere che una reazione è avvenuta come ad esempio la formazione di un precipitato, il cambiamento di colore o lo sviluppo di un gas.

Tra le infinite reazioni chimiche ve ne sono alcune che, per la loro peculiarità, accostano una semplice trasformazione a qualcosa di magico e di imperscrutabile.

Tra queste reazioni vi è quella che porta alla formazione del cosiddetto serpente del faraone.

Premesso che per la realizzazione di questa reazione si fa uso di un reagente molto tossico e che anche i prodotti sono tossici è necessario non solo che sia un chimico ad effettuarla ma che si disponga di un laboratorio munito di cappa aspirante.

Il composto di partenza è il tiocianato di mercurio (II) solido di colore bianco ottenibile dalla reazione tra nitrato di mercurio (II) e tiocianato di potassio secondo la reazione:

Hg(NO3)2 + 2 KSCN → Hg(SCN)2 + 2 KNO3

La combustione del tiocianato di mercurio ne provoca la decomposizione portando alla formazione iniziale di una sostanza scura costituita da nitruro di carbonio che si ottiene dalla reazione:

2 Hg(SCN)2 → 2 HgS + CS2 + C3N4

Tutti i prodotti della reazione subiscono a loro volta una ulteriore trasformazione.

Il solfuro di carbonio è infiammabile e, reagendo con l’ossigeno, dà luogo alla formazione di biossido di carbonio e biossido di zolfo:

CS2 + 3 O2 → CO2 + 2 SO2

Il nitruro di carbonio si decompone in parte in azoto gassoso e in cianogeno gas dall’odore pungente e altamente tossico:

2 C3N4 → 3 (CN)2 + N2

Il solfuro di mercurio (II) reagisce con l’ossigeno per dare vapori di mercurio metallico e biossido di zolfo:

HgS + O2 → Hg +  SO2

A seguito di questa reazione si forma una protuberanza che ricorda la forma di un serpente. La reazione può essere condotta anche con altri reagenti non nocivi ma l’effetto è molto meno plateale e coreografico.


Reazioni di isomerizzazione

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Le reazioni di isomerizzazione sono reazioni in cui un composto viene trasformato in un suo isomero con la rottura di legami e la formazione di altri legami e conseguente modificazione dello scheletro molecolare.

Nel caso di reazioni biologiche le reazioni di isomerizzazione sono spesso catalizzate da un enzima appartenente alla classe delle isomerasi.

Un esempio di reazione biologica è la trasformazione del glucosio-6-fosfato a fruttosio-6-fosfato che avviene nella prima fase della glicolisi ed avviene grazie alla glucosio-6-fosfato isomerasi

glucosio isomerizzazione

Un’altra reazione che in senso lato può essere definita di isomerizzazione almeno per quanto attiene il prodotto iniziale e quello finale avviene nella seconda fase del ciclo di Krebs in cui il citrato viene dapprima disidratato dall’enzima aconitasi a cis-aconiato che, tramite lo stesso enzima, viene idratato a isocitrato

citrato isomerizzazione

Altro esempio di reazione di isomerizzazione ci viene dato dalla trasformazione del D-ribulosio-5-fosfato a xilulosio-5-fosfato tramite l’enzima ribulosio-5-fosfato-epimerasi.

Tale reazione che avviene nella via dei pentoso fosfati è una reazione di epimerizzazione ovvero una reazione in cui si ottiene un diastereoisomero che presenta una diversa configurazione rispetto al reagente in uno stereocentro

ribulosio isomerizzazione

Le reazioni di isomerizzazione, tuttavia, non avvengono solo nel campo della chimica biologica: ad esempio nell’industria petrolchimica viene attuato il reforming per trasformare un alcano a catena lineare in un suo isomero a catena ramificata onde aumentarne il numero di ottani.

Il processo industriale utilizza il cloruro di alluminio quale catalizzatore e, ad esempio, il n-butano viene trasformato nel suo isomero 2-metilpropano che viene usato come specie di partenza per ottenere il 2,2,4-trimetilpentano che ha numero di ottani pari a 100.

butano isomerizzazione

Anche gli alcheni possono dare reazioni di isomerizzazione come, ad esempio, lo Z-stilbene o cis-stilbene, isomerizza in presenza di luce e tracce di iodio a E-stilbene o trans-stilbene

stilbene isomerizzazione

Un altro esempio di reazione di isomerizzazione è la trasformazione dell’acido maleico ad acido fumarico

maleico isomerizzazione

Tale reazione viene catalizzata da acidi minerali o da tiourea: l’interconversione tra i due isomeri non avviene spontaneamente in quanto la rotazione intorno al doppio legame non è energeticamente favorita pertanto avviene in presenza di luce e tracce di bromo tramite un meccanismo radicalico.

Triioduro di azoto

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Il triioduro di azoto noto come nitruro di iodio ha formula NI3 ed è un potente esplosivo molto sensibile agli urti o allo sfregamento. La sua produzione o detenzione in Italia è vietata state la pericolosità della specie per la sua elevata sensibilità.

Può essere sintetizzato alla temperatura di – 30°C a partire da nitruro di boro e fluoruro di iodio in presenza di triclorfluorometano secondo la reazione:

BN + 3 IF → NI3 + BF3

Il primo metodo sintetico messo a punto dal chimico francese Bernard Courtois nel 1812  consiste nell’aggiungere cristalli di iodio ad ammoniaca concentrata, far reagire per qualche minuto e filtrare il triioduro di azoto di colore scuro che si è ottenuto dalla reazione:

3 I2 + NH3 → NI3 + 3 HI

Una volta sintetizzato il triioduro di azoto si presenta sotto forma di due addotti secondo le caratterizzazioni effettuate tramite diffrazione di raggi X, spettroscopia I.R. e U.V. ovvero come NI3∙ NH3 e NI3∙ 3 NH3.

Fin quando esso viene mantenuto in presenza della soluzione ammoniacale è stabile ma, una volta asciutto è altamente esplosivo. Nel suo stato solido la struttura del triioduro di azoto è costituita da catene del tipo –NI2-I- NI2-I- NI2-I- in cui le molecole di ammoniaca si trovano tra le catene.

Il triioduro di azoto ha una struttura piramidale e, a causa della dimensione degli atomi di iodio che sono costretti più vicini gli uni agli altri di quanto permettano i loro raggi atomici, presenta una elevata tensione di Van der Waals detta anche tensione sterica, è altamente instabile.

La decomposizione del triioduro di azoto è favorita sia dal punto di vista cinetico in quanto ha una bassa energia di attivazione che da un punto di vista termodinamico.

Infatti la reazione di decomposizione che avviene con formazione di azoto e iodio:

2 NI3 → N2 + 3 I2

presenta un aumento di entropia in quanto da 2 moli di reagenti si ottengono 1 + 3 = 4 moli di prodotti pertanto ΔS > 0. Inoltre poiché la reazione è altamente esotermica ovvero la variazione di entalpia ΔH è minore di zero si ha che la variazione dell’energia libera di Gibbs data dall’espressione ΔG = ΔH – TΔS è inferiore a zero.

La decomposizione dell’addotto triioduro di azoto-ammoniaca:

8 NI3∙ NH3 → 5 N2 + 6 NH4I + 9 I2

fu proposta successivamente ed è coerente sia con un aumento di entropia sia con la formazione di vapori viola di iodio che si formano a seguito della decomposizione. Questa avviene in modo esplosivo con emissione di un rumore simile a quello provocato dalla polvere da sparo.

Purtroppo se si naviga in Internet vi sono molti siti che mostrano la spettacolarità della reazione inducendo a realizzarla visto che i composti di partenza sono facilmente reperibili. Sarebbe tuttavia opportuno sottolineare quantomeno la pericolosità della reazione se condotta da persone inesperte.

Iodio

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Lo iodio è un alogeno appartenente al Gruppo 17 e al 5° Periodo avente configurazione elettronica [Kr] 4d10, 5s2, 5p5.

In condizioni standard si presenta come un solido lucente dal colore dal colore nero-bluastro che a una temperatura inferiore a quella di fusione tende a sublimare passando direttamente dallo stato solido a quello aeriforme dove assume colorazione viola scuro.

Fu isolato per la prima volta nel 1811 dal chimico francese Bernard Courtois quando notò dei vapori viola dopo aver riscaldato delle alghe marine con acido solforico.

Il vapore, dopo essere condensato, si presentava come una sostanza cristallina di colore nero a cui lo scopritore, comprendendo che si trattava di un nuovo elemento, diede il nome di sostanza X. Fu solo dopo due anni che Sir Humphry Davy, dopo aver osservato l’esperimento, notò che la sostanza X era un elemento analogo al cloro e gli attribuì il nome di iodio dal greco ιωδης che significa viola.

Lo iodio che è l’elemento più pesante e meno reattivo degli alogeni si presenta in forma molecolare I2; ad alta temperatura la molecola di iodio si dissocia in due atomi di iodio.

Lo iodio forma una molecola apolare ed è quindi scarsamente solubile in acqua mentre è solubile in esano e tetracloruro di carbonio. Non dà reazione con l’ossigeno e con l’azoto mentre reagisce con l’ozono per dare un composto giallo instabile avente formula I4O9

Ha numeri di ossidazione -1. +1, +3, +4, +5, +6, +7 con cui forma numerosi composti tra cui lo ioduro di idrogeno HI dove lo iodio ha numero di ossidazione -1, l’acido ipoiodoso HIO dove ha numero di ossidazione +1, l’acido iodico HIO3 dove ha numero di ossidazione +5 e l’acido periodico HIO4 dove ha numero di ossidazione +7.

Lo iodio reagisce con l’acqua per dare l’acido ipoiodoso:
I2 + H2O ⇌ HIO + HI

Stante il basso valore della costante di equilibrio di questa reazione che è dell’ordine di 10-13 l’equilibrio è spostato a sinistra e la quantità di acido ipoiodoso che si ottiene è molto bassa.

L’acido ipoiodoso tende a dare una reazione di disproporzione per dare acido iodico e iodio:

5 HIO → HIO3 + 2 I2 + 2 H2O

Lo iodio reagisce con gli alogeni dando luogo a prodotti di reazione diversi a seconda delle condizioni di reazione.

Reagisce con il fluoro per dare pentafuororo di iodio se la reazione avviene a temperatura ambiente:

I2 + 5 F2 → 2 IF5

Mentre a 250°C il prodotto di reazione è l’eptafluoruro di iodio:

I2 + 7 F2 → 2 IF7

Alla temperatura di  -45°C e in presenza di triclorofluorometano dà luogo alla formazione di trifluoruro di iodio solido di colore giallo:

I2 +3 F2 → 2 IF3

In presenza di bromo forma il bromuro di iodio, specie instabile caratterizzata da una bassa temperatura di fusione:

I2 + Br2 → 2 IBr

Lo iodio reagisce con il cloro a – 80°C per dare il tricloruro di iodio:

I2 +3 Cl2 → 2 ICl3

Mentre in presenza di acqua forma l’acido iodico:

I2 + 6 H2O + 5 Cl2 → 2 HIO3 + 10 HCl

Lo iodio reagisce a caldo con l’acido nitrico per dare acido iodico che cristallizza:

3 I2 + 10 HNO3 → 6 HIO3 + 10 NO + 2 H2O

In ambiente basico lo iodio viene parzialmente convertito in iodato:

3 I2 + 6 OH → IO3 + 5 I + 3 H2O

Lo iodio può essere contenuto in alcuni composti organici ed in particolare negli alogenuri alchilici: gli ioduri alchilici primari non ingombrati costituiscono i tipici agenti alchilanti nelle reazioni organiche.

Lo iodio forma un nitruro ovvero il triioduro di azoto NI3 che è un potente esplosivo.

Lo iodio è presente nella forma isotopica 127I ma possono essere ottenuti isotopi radioattivi dello iodio e in particolare 131I che viene usato in campo medico ed in particolare nel trattamento dell’ipertiroidismo e in alcuni tipi di cancro della tiroide.

Uno dei preparati più noti contenenti iodio è la tintura di iodio, soluzione di acqua ed etanolo al 7% m/V di iodio contenente ioduro di potassio dalle note proprietà disinfettanti e sterilizzanti.

Queste proprietà sono dovute sia al potere ossidante dello iodio sia alla sua capacità di formare complessi con le proteine provocandone la denaturazione. Lo iodio inoltre forma un complesso di colore con gli amidi e tale proprietà è sfruttata nelle titolazioni iodometriche dove si utilizza quale indicatore la salda d’amido.

Lo iodio è un micronutriente essenziale che si trova prevalentemente nella tiroide che produce gli ormoni tiroxina e  triiodotironina che contengono lo iodio all’interno delle loro strutture. Questi ormoni noti come T4 e T3 rispettivamente stimolano i processi anabolici ovvero i processi di crescita, sviluppo e movimento dell’organismo.

Gli ormoni tiroidei sono fondamentali per lo sviluppo cerebrale e somatico del bambino e dell’attività metabolica dell’adulto influenzando la funzione di ogni organo e tessuto ed infatti non c’è organo o apparato che non sia influenzato dalla tiroide.

La fonte principale di iodio è l’alimentazione e gli alimenti più ricchi di iodio sono i pesci di mare, i molluschi e il sale marino; lo iodio poi è contenuto in quantità variabile nei cereali, carne, frutta, verdura, latte e uova.

In caso di assunzione insufficiente di iodio la tiroide produce una quantità minore di ormoni tiroidei e ciò comporta disturbi dovuti a carenza iodica tra cui il gozzo ovvero l’ingrossamento della tiroide. La carenza di iodio può portare a letargia, depressione, scarsa concentrazione, aumento di peso, intolleranza al freddo ma le conseguenze più gravi della carenza di iodio sono rappresentate dai danni a carico del sistema nervoso centrale e periferico.

Allotropia

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Alcuni elementi appartenenti prevalentemente dei Gruppi 13, 14, 15 e 16 della Tavola Periodica possono presentarsi in forme diverse che differiscono tra loro per le proprietà fisiche e chimiche oltre che per la forma cristallina pur presentando lo stesso stato di aggregazione.

Il boro è l’unico elemento del gruppo 13 che si presenta in diverse forme allotropiche: oltre al boro amorfo di colore marrone vi è il boro cristallino che è caratterizzato da durezza e bassa conducibilità. Tra gli allotropi del boro conosciuti solo tre sono stati caratterizzati: boro α-romboedrico di colore rosso, boro β-romoedrico di colore nero che è quello termodinamicamente più stabile e il boro β-tetragonale. Tali forme allotropiche sono di tipo polimerico e differiscono dal modo in cui viene condensato l’icosaedro B12

In figura viene riportato l’icosaedro B12 e uno strato del reticolo del boro α-romboedrico

allotropi boro

Per quanto attiene gli elementi del gruppo 14 solo il carbonio e lo stagno presentano il fenomeno dell’allotropia.

Per il carbonio, oltre allo stato amorfo,  erano state dapprima individuate due forme allotropiche costituite dal diamante e dalla grafite.

Nel diamante ciascun atomo di carbonio è legato tramite un legame covalente a quattro altri atomi di carbonio contigui ibridati sp3 tramite legami σ formando una struttura tetraedrica.  Il diamante è un solido rigido, trasparente, elettricamente isolante ed è la sostanza più dura che si conosca infatti occupa il primo posto nella scala di Mohs.

La grafite è un solido grigio scuro, tenero e untuoso al tatto buon conduttore di elettricità e di calore. Nella grafite che è la forma termodinamicamente più stabile gli atomi di carbonio formano un reticolo esagonale a strati con legami σ e legami π all’interno di ogni strato mentre gli strati sono tenuti insieme da forze di Van der Waals.

Fu solo nel 1985 che furono ottenute molecole contenenti 60 atomi di carbonio che sostituiscono i vertici di un icosaedro tronco costituito da dodici pentagoni e venti esagono. Tale molecola denominata fullurene ha una forma simile a una sfera cava detta buckyball simile a un pallone da calcio.

Nel 1991 fu ottenuta un’altra forma allotropica del carbonio costituita dai nanotubi di carbonio in cui le pareti del tubo sono costituite da atomi di carbonio legati tra loro in modo da formare una rete a maglie esagonali simile a quella della grafite e avvolta in modo da originare una struttura tubolare detta buckytube.

Nel 2004 fu scoperto il grafene il cui spessore corrisponde a quello di un atomo in cui il carbonio è ibridato sp2 e gli atomi sono disposti secondo un reticolo cristallino a nido d’ape.

allotropi carbonio

Lo stagno si presenta sotto due forme allotropiche ovvero lo stagno grigio detto stagno α con una struttura cubica stabile al di sotto dei 13°C e lo stagno bianco detto stagno β con una struttura tetragonale stabile oltre i 13°C.

allotropi stagno

Gli elementi del gruppo 15 che danno luogo a allotropia sono fosforo e arsenico.

Il fosforo esiste in diverse forme allotropiche ma le due più conosciute sono il fosforo bianco costituito da tetraedri P4 uniti tra loro da forze di Van der Waals. Il fosforo bianco è infiammabile e piroforico e tossico per inalazione. Il fosforo bianco a contatto con l’ossigeno presente nell’aria dà luogo alla formazione di anidride fosforica secondo la reazione esotermica:

P4 +5 O2 →  2 P2O5

L’anidride fosforica esiste in forma dimerica P4O10  prodotta è un forte disidratante e reagisce in modo violento ed esotermico con l’acqua con formazione di acido fosforico:

P4O10 +6 H2O → 4 H3PO4

La reazione viene sfruttata nelle bombe incendiarie atte a illuminare sebbene possa essere usato come arma non convenzionale in quanto, a seguito di essa, di ha la distruzione dei tessuti molli.

L’altro stato allotropico più conosciuto del fosforo è il fosforo rosso che si forma riscaldando il fosforo bianco a 300°C in assenza di aria. Si presenta amorfo e, solo per successivo riscaldamento, dà luogo a cristallizzazione.

A rigore il fosforo rosso non dovrebbe essere considerato un allotropo del fosforo ma una fase intermedia tra fosforo bianco e fosforo viola detto fosforo di Hittorf che si ottiene riscaldando a lungo il fosforo rosso a 550°C.

Riscaldando il fosforo bianco si può ottenere ad alte pressioni e in presenza di catalizzatori il fosforo nero che presenta una struttura analoga a quella della grafite e ha grandi potenzialità nel campo dei dispositivi nanoelettronici potendo essere ridotto in lamine sottili.

In figura vengono riportare le strutture del fosforo bianco, nero e rosso

allotropi fosforo

Delle sei forme allotropiche dell’arsenico, appartenente allo stesso gruppo del fosforo, tre sono amorfe. La altre tre forme sono α-As o arsenico grigio che rappresenta la forma più stabile, arsenico giallo presente come As4 con la stessa struttura del fosforo bianco e arsenico nero con la stessa struttura del fosforo rosso

Gli elementi del Gruppo 16 che presentano forme allotropiche sono ossigeno, zolfo e selenio.

L’ossigeno si presenta come molecola biatomica O2 e come O3 detto ozono la cui struttura può essere rappresentata da forme limite di risonanza:

ozono

Esso  è presente negli alti strati dell’atmosfera ed in particolare nell’ozonosfera e si forma dalla reazione:

3 O2 → 2 O3

e viene prodotto dalle scariche elettriche dei fulmini. L’assottigliamento dello strato di ozono che costituisce uno schermo nei confronti di radiazioni U.V. nocive per la sua vita sulla terra è dovuto alla sua distruzione da carte di composti alogenati noti come fluoroclorocarburi.

Lo zolfo è l’elemento secondo solo al carbonio per numero di allotropi essendo stata dimostrata l’esistenza di almeno 22 forme allotropiche.

La forma allotropica più semplice è la molecola biatomica S2 analoga alla molecola di ossigeno O2, ma al contrario di quest’ultima non si trova in natura a pressione atmosferica e a temperatura ambiente ma viene ottenuto nel vapore generato dallo zolfo a temperature superiori a 700°C. E’stato infatti rilevato dal telescopio Hubble Space nelle eruzioni vulcaniche avvenute nel satellite di Giove Io.

Tra gli altri allotropi dello zolfo vi è la forma α, rombica stabile fino a 95.5 °C in cui lo zolfo si presenta sotto forma di cristalli con abito bipiramidale e in aggregati granulari e la forma β monoclina stabile da 95.5 °C a 119°C ( temperatura di fusione).

Nelle vicinanze del punto di fusione lo zolfo liquido è ancora giallo e fluido e contiene essenzialmente molecole di cicloottazolfo S8 costituito da un gruppo di otto atomi disposti ad anello.

allotropi zolfo

Nelle vicinanze del punto di fusione lo zolfo liquido è ancora giallo e fluido e contiene essenzialmente molecole S8. Al di sopra di 159°C il suo colore diventa progressivamente più scuro e la sua viscosità aumenta fino a raggiungere un massimo intorno ai 200°C.

Il fenomeno viene spiegato con una crescente rottura degli anelli S8 e con la contemporanea formazione di lunghe molecole a catena lineare che arrivano a contenere decine di migliaia di atomi. Al di sopra dei 200°C la viscosità comincia a diminuire fino al punto di ebollizione (446.6°C) perché le lunghe catene si rompono.

Dello zolfo esistono anche altre forme allotropiche cristalline nonché forme amorfe e fibrose; quest’ultima detta anche zolfo plastico, si ottiene raffreddando rapidamente in acqua lo zolfo fuso e contiene lunghe catene lineari che si avvolgono a elica.

L’ultimo elemento del Gruppo 16 che presenta allotropi è il selenio che può presentarsi in diverse forme: selenio grigio trigonale che contiene catene elicoidali polimeriche di Sen e che è il più stabile da un punto di vista termodinamico, tre forme monocline di colore rosso scuro dette α, β e γ, selenio amorfo rosso e selenio nero vetroso

Fosforene

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Dal 2004 anno in cui fu ottenuto per la prima volta il grafene si sono sviluppate le ricerche sui materiali bidimensionali detti 2D tra cui il nitruro di boro con caratteristiche isolanti e i calcogenuri dei metalli di transizione come il disolfuro di molibdeno MoS2 e il diseleniuro di tungsteno WSe2 che si comportano da semiconduttori per le loro molteplicità di impiego.

Impilando cristalli 2D diversi che si legano tra loro dando luogo alla formazione di eterostrutture di Van der Waals si possono ottenere materiali con proprietà ottiche, elettroniche e magnetiche che si differenziano rispetto a quelle dei materiali dei singoli strati.

Lo studio di questi materiali che hanno proprietà innovative è quindi finalizzato alla progettazione di nuovi dispositivi di piccolissime dimensioni e dotati di enormi potenzialità.

Nel 2014 è entrato a far parte dei materiali 2D il fosforene ottenuto dal fosforo nero e formato da un solo strato di atomi di fosforo.

Il fosforo nero, che costituisce uno degli stati allotropici del fosforo non è mai stato studiato a fondo, e su di esso, nonostante sia la forma termodinamicamente stabile del fosforo, non sono mai state condotte ricerche approfondite.

Il fosforo nero viene ottenuto per riscaldamento del fosforo bianco ad altissime pressioni e presenta in apparenza proprietà e struttura simili a quelle della grafite essendo anch’esso di colore scuro, friabile, conduttore di elettricità. Il fosforo nero ha una struttura ortorombica costituita da anelli a sei membri in cui ogni atomo è legato ad altri tre.

La più importante somiglianza del fosforo nero con la grafite è la possibilità di poter essere ottenuto in monostrati dotati di eccellenti proprietà di trasporto di cariche ed elevata conduttività termica. Esso tuttavia tende ad ossidarsi a contatto con l’acqua in presenza di ossigeno e ciò costituisce un limite per il suo utilizzo.

L’elevato assorbimento ottico del materiale denominato in analogia con il grafene, fosforene, lo rendono di particolare interesse nel campo delle applicazioni optoelettroniche che studiano i dispositivi elettronici che interagiscono con le radiazioni elettromagnetiche.

Al contrario del grafene che è strutturalmente piatto ed è capace di condurre elettricità essendo privo della banda energetica proibita tipica dei semiconduttori, il fosforene che ha una fisionomia ondulata dove ventri si alternano a creste formate da atomi di fosforo, intercalati in un continuo saliscendi ha una banda energetica proibita determinata e quindi può condurre elettricità solo quando gli elettroni assorbono una determinata energia e questa caratteristica consente un controllo sul comportamento elettrico del materiale.

Diversamente dal grafene, il fosforene, contrariamente ad altri materiali 2D, è anisotropo e tale proprietà incide sulle proprietà ottiche, elettriche, termiche e meccaniche dei dispositivi in cui viene utilizzato.

Quello che rende il fosforene particolarmente interessante è che la sua banda proibita che va da 0.3 a 2.0 eV copre un intervallo che non hanno tutti gli altri materiali 2D in quanto il grafene ha una banda proibita pari a zero mentre il calcogenuri dei metalli di transizione hanno una banda proibita che va da 1.5 a 2.5 eV.

La banda proibita del fosforene corrisponde all’intervallo di lunghezza d’onda tra 0.6 e 4.0 μ che copre l’intervallo che è a cavallo tra luce visibile e infrorosso quindi può essere usato nei sensori a infrarosso.

La banda proibita del fosforene inoltre può essere variata sia aumentando il numero di monostrati impilati che dopando il fosforene con arsenico consentendo al materiale di essere particolarmente sensibile alla presenza di gas.

La ricerca ora si rivolge sia a metodi nuovi per l’ottenimento del fosforo nero, sia a materiali che possano passivarlo al fine di renderlo più stabile.

Fluoro

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Il fluoro è un alogeno appartenente al Gruppo 17 e al 2° Periodo avente configurazione elettronica [He]2s2,2p5.

Il fluoro è contenuto in una varietà di minerali tra cui la fluoroapatite Ca5(PO4)3F, la bararite (NH4)2SiF6 e la fuorite CaF2 che è il minerale più importante e più comune contenente il fluoro.

Il fluoro è l’elemento più reattivo ed elettronegativo, si presenta quando è combinato con il numero di ossidazione -1, ha una elevatissima energia di ionizzazione e, salvo rarissime eccezioni, non si trova allo stato elementare ma sotto forma di molecola biatomica F2 di colore giallo, altamente corrosivo ed infiammabile che reagisce con molti composti sia organici che inorganici.

Nel XIX secolo molti chimici tra cui Gay Lussac, Louis Jacques Thenard, Humphry Davy, Carl Wilhelm Scheele e Joseph Priestley effettuarono esperimenti sulla fluorite ottenendo nella gran parte dei casi acido fluoridrico.

Nel 1809 il fisico francese Andre-Marie Ampere intuì che l’acido fluoridrico era costituito da idrogeno e da un elemento sconosciuto. Fu solo nel 1886 che il chimico francese Ferdinand Frederick Henri Moissan riuscì ad ottenere per la prima volta il fluoro dopo aver interrotto quattro volte le sue ricerche per le gravi intossicazioni dovute all’elemento che stava cercando. Egli riuscì ad ottenere il fluoro partendo dal fluoruro di calcio: dopo aver trattato il fluoruro di calcio con acido solforico ottenne acido fluoridrico secondo la reazione:

CaF2 + H2SO4 → CaSO4 + 2 HF

L’acido fluoridrico acquoso ottenuto dalla reazione fu distillato per ottenere acido fluoridrico anidro che fu trattato con fluoruro di potassio che trasforma HF in bifluoruro di potassio KHF2 sale di potassio dello ione bifluoruro. L’elettrolisi del bifluoruro di potassio dà luogo alla formazione di F2 che si sviluppa all’anodo mentre H2 si sviluppa al catodo:

2 KHF2 → H2 + F2 + 2 KF

Per tale scoperta Moissan ottenne nel 1906 il Premio Nobel per la Chimica.

Solo nel 1986 il chimico tedesco Karl Otto Christe ha ottenuto per la prima volta il fluoro senza avvalersi di tecniche elettrochimiche usando una soluzione di acido fluoridrico, potassio esafluoromanganato (IV) e pentafluoruro di antimonio:

2 K2MnF6 + 4 SbF5→ 4 KSbF6 + 2 MnF3 + F2

La bassa energia di legame tra i due atomi di fluoro rendono la molecola di F2 poco stabile con conseguente elevata reattività: il fluoro forma infatti composti con quasi tutti gli elementi compresi i gas nobili con cui forma una varietà di composti tra cui l’esafluoroplatinato di xeno, composto chimico che si presenta come un solido color giallo arancio e avente formula XePtF6 che fu il primo composto in cui è presente un gas nobile ottenuto per la prima volta nel 1962 dal chimico Neil Berlett.

Stante l’alta reattività del fluoro molte reazioni in cui esso è coinvolto sono improvvise ed esplosive: molte sostanze scarsamente reattive come acciaio ridotto in polvere, frammenti di vetro e fibre di amianto reagiscono rapidamente con il fluoro.

Il fluoro reagisce violentemente con l’idrogeno secondo la reazione esotermica:

F2 + H2 → 2 HF  ΔH = – 537 kJ

La reazione avviene anche a basse temperature e in assenza di luce.

Il fluoro reagisce con l’acqua per dare ossigeno molecolare e ozono:

2 F2(g) + 2 H2O(l) → O2(g) + 4 HF(aq)

3 F2(g) + 3 H2O(l) → O3(g) + 6 HF(aq)

Il fluoro reagisce con i metalli e, in particolare, con i metalli alcalini in modo esplosivo per dare fluoruri:

2 Me(s) + F2(g) → 2 MeF(s)

I metalli alcalino-terrosi reagiscono in modo meno violento con il fluoro mentre altri metalli come l’alluminio, il rame e il ferro devono essere ridotti in polvere in quanto a contatto con il fluoro si passivano formando uno strato sottile di fluoruro metallico che impedisce una ulteriore fluorurazione.

Stante l’elevato valore del potenziale normale di riduzione del fluoro relativo alla semireazione:

F2(g) + 2 e→ 2 F(aq) per la quale E° = + 2.87 V

il fluoro è un ottimo agente ossidante; ad esempio quando viene fatto gorgogliare in una soluzione di clorato di potassio lo ossida a perclorato:

F2 + 2 KClO3 + H2O → 2 HF + KClO4

Il fluoro reagisce con gli altri alogeni in diverse condizioni per dare i composti interalogeni.

Il fluoro reagisce con soluzioni basiche diluite per dare il fluoruro di ossigeno:

2 F2(g) + 2 OH(aq) → OF2(g) + 2 F(aq) + H2O(l)

Il fluoro forma moltissimi composti tra cui i fluoruri tra cui l’esafluoruro di uranio UF6 utilizzato nei processi di arricchimento dell’uranio per l’ottenimento di combustibili nucleari e di arricchimento dell’uranio.

E’ presente negli organofluoruri composti in organici in cui è presente il fluoro al posto di uno o più atomi di idrogeno con conseguente alterazione delle proprietà delle molecole a cui conferisce elevata inerzia chimica.

Il tetrafluoroetene, composto fluorurato organico viene usato per ottenere il politetrafluoroetilene noto con il nome di teflon.

I fluoroclorocarburi tra cui il freon veniva utilizzato negli impianti di aria condizionata e nella refrigerazione anche se ora sono stati vietati in quanto si ritiene che possano contribuire all’assottigliamento dello strato di ozono.

Composti contenenti fluoro come il fluoruro di stagno (II), fluoruro di sodio, monofluorofosfato di sodio e fluoro amminico vengono usati nei dentifrici e nei collutori per la prevenzione della carie.

Diet Coke e Mentos

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Fin dalla sua prima apparizione alla fine degli anni ’90 sul web il video che mostra la reazione tra la Diet Coke e le Mentos ha costituito un vero a proprio fenomeno al punto che ancora oggi, a distanza di anni, vengono messi in rete nuovi video che riscuotono sempre grande successo e un elevato numero di visualizzazioni.

Questa reazione è diventata un vero e proprio fenomeno e di essa si sono occupati programmi televisivi ed è stata oggetto di studi per spiegare l’origine di quella che viene definita “eruzione” che può raggiungere un’altezza di 10 m.

Diverse sono state le teorie per giustificare questo fenomeno e nel 2006 fu suggerito che le sostanze chimiche coinvolte nella reazione fossero la gomma arabica e la gelatina presenti nelle Mentos e la caffeina, l’aspartame e il benzoato di potassio presenti nella bevanda ma non si avevano riscontri scientifici.

Nel giugno 2008 presso l’Appalachian State University furono compiuti studi su questa reazione e i risultati pubblicati sull’ American Journal of Physics.

I ricercatori eseguirono numerosi esperimenti usando sia altre bevande gasate che altri tipi di sostanze solide. Essi esclusero sia che si trattasse di una reazione acido-base in quanto il pH prima e dopo la reazione non variava sia che fosse coinvolta la caffeina in quanto la reazione avveniva anche nella Diet Coke nella formulazione caffeine-free.

Inoltre fu notato che la reazione il fenomeno si verificava in misura molto ridotta nella formulazione tradizionale della Coca Cola e che non si verificava per nulla variando la sostanza solida. Alla luce di tutti i dati sperimentali raccolti sono stati identificati i fattori che favoriscono la rapidissima formazione delle bolle di anidride carbonica.

Innanzi tutto le molecole di acqua presenti in ogni soluzione sono legate tra loro tramite legami a idrogeno quindi ogni perturbazione arrecata a questo sistema come un oggetto che viene lasciato cadere agisce come sito di accrescimento delle bolle.

E’ stata poi considerata la superficie delle Mentos che presenta molti pori e rugosità che costituiscono ottimi siti di nucleazione dell’anidride carbonica e ne favoriscono l’aggregazione in grandi bolle che fuoriescono rapidamente.

Un altro fattore che favorisce l’eruzione dell’anidride carbonica è la tensione superficiale ovvero la forza di coesione che si esercita tra le molecole superficiali di un liquido. La presenza di aspartame utilizzato quale dolcificante nella Diet Coke e della gomma arabica che ricopre le Mentos abbassano notevolmente la tensione superficiale favorendo la fuoriuscita dell’anidride carbonica.

L’ultimo ma non meno importante fattore che contribuisce alla spettacolarità della reazione è la densità delle Mentos che è sufficientemente elevata da consentire il loro affondamento nella bevanda e ciò provoca una maggiore interazione con il liquido che accelera la reazione.

Poiché la reazione avviene in modo vigoroso, anche se molti si divertono a realizzarla senza le dovute cautele, si sconsiglia di farla avvenire in un luogo chiuso e di proteggere gli occhi adeguatamente nel corso della stessa.

 


Tantalio

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Il tantalio è un metallo di transizione appartenente al Gruppo 5B e al 6° Periodo avente configurazione elettronica [Xe] 4f145d36s2.

Il tantalio fu scoperto dal chimico svedese Anders Gustaf Ekeberg nel 1802 e il suo nome deriva da Tantalo figura mitologia che dopo la sua morte fu sottoposto a un supplizio e si ritenne che il tantalio avesse attinenza con il comportamento dell’elemento che non si scioglie negli acidi.

Fu solo nel 1864 che il chimico francese Jean Charles Galissard de Marignac riuscì ad isolare il tantalio presente in alcune rocce come la tantalite, la columbite e il coltan riducendo il cloruro di tantalio in atmosfera di idrogeno.

Il tantalio è un metallo scuro dotato di elevata densità e ottimo conduttore di calore e elettricità noto per la sua resistenza agli acidi; esso non viene attaccato neanche dall’acqua regia a temperature minori di 150°C ma viene attaccato dall’acido fluoridrico o dall’idrossido di potassio.

Il tantalio presenta numeri di ossidazione +5, +4, +3, +2, +1, -1, e -3 sebbene il numero di ossidazione più stabile è +5.

Il tantalio reagisce a caldo con gli alogeni dando alogenuri di tantalio in cui esibisce il numero di ossidazione +5; il pentafluoruro di tantalio TaF5 così come il pentacloruro di tantalio TaCl5 sono di colore bianco, il pentabromuro di tantalio TaBr5 è di colore giallo mentre il pentaioduro di tantalio TaI5 è nero. Il tantalio forma con gli alogeni composti in cui presenta anche il numero di ossidazione +4 e +3.

Il pentafluoruro di tantalio viene usato insieme all’acido fluoridrico come catalizzatore nell’alchilazione di alcani e alcheni e nella protonazione di composti aromatici.

Il tantalio non reagisce con l’aria e con l’acqua in condizioni normali in quanto tende a ricoprirsi di un sottile film di ossida di tantalio Ta2O5.

Il pentossido di tantalio costituisce il materiale di partenza per ottenere gli altri composti del tantalio che vengono ottenuti per dissoluzione dell’ossido in soluzioni basiche.

Tra i composti più importanti del tantalio vi sono i tantalati derivanti formalmente dall’ipotetico acido tantalico HTaO3.

Tra i tantalati più importanti vi è il tantalato di litio LiTaO3 che presenta proprietà ottiche, piezoelettriche e piroelettriche che lo rendono fondamentale per molti dispositivi tra cui i sensori di movimento.

Tra i composti del tantalio vi è la famiglia dei carburi di tantalio avente formula TaCx con x compreso tra 0.4 e 1 materiali appartenenti alla famiglia delle ceramiche refrattarie dotati di conducibilità elettrica.

In particolare il carburo di tantalio TaC ha una durezza superiore a quella del diamante che viene usato come additivo per leghe di carburo di tungsteno, utensili e attrezzi da taglio.

Il tantalio viene utilizzato nei computer portatili, cellulari, macchine fotografiche digitali, sistemi ABS nelle autovetture, pacemaker, ferri chirurgici, impianti chimici per la sua resistenza alla corrosione e inerzia chimica I condensatori elettrolitici al tantalio in cui il metallo è usato sotto forma di ossido sono caratterizzati da efficienza volumetrica elevata e stabilità nel tempo e in temperatura. L’ossido di tantalio viene usato inoltre per vetri ad alto indice di rifrazione.

 

Niobio

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Il niobio è un metallo di transizione appartenente al Gruppo 5B e al 5° Periodo avente configurazione elettronica [Kr] 4d4 5s1.

La scoperta del niobio è intimamente connessa a quella del tantalio sia perché i due metalli sono in genere presenti negli stessi minerali, sia perché la loro separazione è particolarmente difficile a causa del loro comportamento analogo.

Nel 1802 il chimico britannico Charles Hatchett nell’ambito dei suoi studi sui minerali esaminò un campione inviato dal Connecticut e riscontrò l’esistenza di un nuovo elemento per il quale suggerì il nome di columbio in quanto proveniente dall’America e lo stesso minerale prese il nome di columbite.

L’anno successivo il chimico svedese Anders Gustaf Ekeberg scoprì il tantalio che presentava proprietà simili all’elemento scoperto in precedenza. Fu solo dopo molti studi che nel 1846 il chimico tedesco Heinrich Rose comprese che nelle rocce esaminate oltre al tantalio era presente un altro elemento a cui fu dato il nome di niobio dal personaggio mitologica Niobe, figlia di Tantalo.

Il niobio, metallo di colore grigio, tenero e duttile ha, come il tantalio, numeri di ossidazione +5, + 4, + 3, + 2, + 1, −1, −3  e il numero di ossidazione più stabile è +5.

Come il tantalio anche il niobio reagisce a caldo con gli alogeni dando alogenuri di niobio in cui esibisce il numero di ossidazione +5; il pentafluoruro di niobio NbF5 è di colore bianco, il pentacloruro di niobio NbCl5 è di colore giallo, il pentabromuro di niobio NbBr5 è di colore arancione mentre il pentaioduro di niobio NbI5 è di color oro.

Come il tantalio anche il niobio non reagisce con l’aria e con l’acqua in condizioni normali in quanto tende a ricoprirsi di un sottile film di ossido di niobio Nb2O5.

Il pentossido di niobio costituisce il precursore di molti composti del niobio.

Tra gli ossidi di niobio, oltre al pentossido vi è il biossido NbO2 in cui il niobio ha numero di ossidazione + 4 e può essere ottenuto per idrogenazione del pentossido a temperature superiori a 800°C.

Il biossido di niobio è un buon agente riducente in grado di ridurre il biossido di carbonio a carbonio e il biossido di zolfo a zolfo.

Oltre al triossido di niobio Nb2O3 in cui il niobio ha numero di ossidazione +3 il niobio forma anche il monossido di niobio NbO in cui ha il niobio ha il numero di ossidazione più raro +2. Quest’ultimo viene ottenuto in un forno elettrico ad arco dalla reazione tra pentossido di niobio e niobio secondo la reazione di comproporzione:

Nb2O5 + 3 Nb → 5 NbO

Facendo reagire il pentossido di niobio con NaOH a 200°C si ottengono il niobiato di sodio NaNbO3 mentre il niobiato di litio largamente utilizzato nel campo delle telecomunicazioni in quanto è un buon materiale per la produzione di apparecchi generatori di onde acustiche di superficie viene ottenuto dalla reazione del pentossido di niobio con il carbonato di litio.

Il niobio forma seleniuri come il seleniuro di niobio (IV)  usato come lubrificante alle alte temperature e mostra una conducibilità elettrica maggiore della grafite. Il seleniuro di niobio (VI) NbSe3 esibisce superconduttività a 2 K e, a causa della sua struttura, della sua alta conducibilità e dell’elevata densità gravimetrica può essere usato quale catodo nelle batterie ricaricabili al litio.

Tra i composti del niobio vi è il carburo di niobio NbC  materiale ceramico refrattario estremamente duro, resistente alla corrosione commercialmente utilizzato negli utensili da taglio.

Altro composto di interesse è il nitruro di niobio NbN che a circa 16 K diventa un superconduttore ed è usato nei rivelatori a luce infrarossa.

Il fosfuro di niobio NbF è usato come semiconduttore nei diodi laser

Il niobio viene utilizzato nella produzione di acciai inossidabili speciali che, per le loro caratteristiche, vengono usati nell’industria automobilistica.

Circa il 75% del niobio viene utilizzato per la produzione di acciai microlegati che hanno un alto limite di snervamento per formatura a freddo e piegatura e caratteristiche meccaniche più elevate rispetto ai tradizionali acciai da stampaggio.

In lega con nichel, cobalto e ferro, il niobio viene usato per ottenere leghe resistenti per componenti di motori a reazione, turbine a gas e comunque per dispositivi che devono essere resistenti alle alte temperature.

Una lega di particolare interesse è quella niobio titanio dalle particolari proprietà superconduttive che trova applicazione nei magneti superconduttori.

Gli ossidi di niobio, inoltre, aggiunti ai catalizzatori in piccole quantità migliorano l’attività catalitica, la selettività e prolungano la vita del catalizzatore.

Materiali in 2D: MX-eni

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La scoperta del grafene avvenuta nel 2004 che valse ai fisici Andrej Geim e Konstantin Novoselov il Premio Nobel per la fisica nel 2010 ha costituito uno spartiacque che ha aperto nuovi orizzonti nel campo della ricerca.

La comunità scientifica ha infatti immediatamente compreso le potenzialità del nuovo materiale e si è attivata nello studio delle sue applicazioni soprattutto nel campo dell’elettronica ma non mancano continue scoperte per la sua applicazione nel campo delle celle solari, inchiostri high tech per stampare circuiti, possibilità di potabilizzazione dell’acqua di mare.

Il grafene è divenuto inoltre il materiale rappresentativo di una classe di nuovi materiali 2D che hanno proprietà innovative che consentono la fabbricazione di nuovi dispositivi di piccolissime dimensioni e dotati di enormi potenzialità.

Nel 2011 il Prof. Michel Barsoum ingegnere dei materiali e ricercatore presso la Drexel University di Philadelphia e il suo team nell’ambito delle ricerche sugli anodi ad alte prestazioni da utilizzare nelle batterie al litio.

Essi sfruttarono le loro conoscenze su una classe di composti conduttori ovvero carburi e nitruri noti con l’acronimo di MAX dove M sta per metallo di transizione come niobio, cromo, vanadio e titanio, A sta per un elemento del  gruppo 13 o del gruppo 14 come alluminio e silicio e X sta per carbonio o azoto per migliorare la capacità degli ioni litio di inserirsi reversibilmente all’anodo durante i processi di carica e scarica.

Per favorire l’inserimento di ioni litio fu utilizzato acido fluoridrico al fine di allontanare in modo selettivo gli atomi di alluminio da Ti3AlC2 e da altri MAX.

Il processo, se da un lato migliora le prestazioni delle batterie, dall’altro è in grado di allontanare totalmente l’alluminio e di ottenere monostrati in 2D come il grafene con formula M3X2 ma possono essere ottenuti anche M2X, e M4X3 ed altri materiali; ad esempio è stata dimostrata la formazione di Ti2C, Ta4C3,Ti3CN.

A tale famiglia di materiali è stato dato, in assonanza con il grafene il nome di MX-eni e, ad oggi sono stati preparati circa 30 MX-eni sebbene si ritenga che se ne possano ottenere molti altri.

Il team, che rimane quello più all’avanguardia, ha ideato un metodo per ottenere polimeri compositi MX-ene che si presentano conduttori di elettricità, forti, flessibili e duraturi.

Sono stati inoltre di recente sintetizzati MX-eni contenenti due metalli di transizione del tipo M’2M”C2 o M’2M”2C3 dove M’ e M’’ sono due metalli di transizione.

La famiglia degli MX-eni trova numerose applicazioni oltre alle batterie al litio e al sodio: sono utilizzabili tra l’altro come sensori di gas, fotocatalizzatori, nella purificazione delle acque e quali schermanti delle interferenze elettromagnetiche da utilizzare negli Smart phone e in altre apparecchiature. Sono allo studio le proprietà antibatteriche degli MX-eni che mostrano una maggior efficienza nel diminuire l’attività batterica cellulare rispetto all’ossido di grafene.

Reazione di Old Nassau o di Halloween

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La reazione di Old Nassau anche nota come reazione di Halloween fu scoperta da alcuni studenti dell’Università di Princeton. A tale reazione fu dato il nome di Old Nassau  con cui viene detta la nota Università mentre viene anche detta reazione di Halloween in quanto i colori che si manifestano sono l’arancio e il nero.

La reazione di Old Nassau è una tipica reazione oscillante in cui una soluzione assume diverse colorazioni avvenendo in più stadi.

Per realizzare questa reazione occorre mescolare disporre di tre beaker da 250, 400 e 600 mL rispettivamente.

Nel primo beaker vengono mescolati65 mL di una soluzione di solfito acido di sodio NaHSO3 0.25 M e 85 mL di una soluzione di salda d’amido.

Nel secondo beaker vengono posti 150 mL di una soluzione 0.01 M di HgCl2.

Nel terzo beaker vengono messi 110 mL di una soluzione di KIO3 0.10 M e 40 mL di acqua deionizzata.

Il contenuto dei primi due beaker viene mescolato e rapidamente aggiunto nel terzo beaker.

Nel primo stadio della reazione gli ioni iodato vengono ridotti dall’idrogenosolfito secondo la reazione di ossidoriduzione:

IO3 +3 HSO3 → I + 3 SO42- + 3 H+

Nel secondo stadio lo ioduro formatosi reagisce con lo ione Hg2+ per dare un precipitato di ioduro di mercurio (II) di color arancione:

Hg2+ + 2 I → HgI2

Dopo la precipitazione di tutto lo ione Hg2+ nel terzo stadio l’eccesso di ioduro reagisce con lo iodato in una reazione di comproporzione con formazione di iodio:

IO3 +5 I + 6 H+ →3 I2 + 3 H2O

Lo iodio formatosi nella reazione reagisce nel quarto stadio con la salda d’amido per dare una tipica colorazione blu scurissimo

reazione di Halloween

 

 

Disidratazione del saccarosio

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Tra le tante reazioni che avvengono in modo plateale destando lo stupore di tutti vi è la disidratazione del saccarosio. Premesso che tale reazione, altamente esotermica, non va fatta in casa in quanto l’acido solforico concentrato deve essere maneggiato solo da un esperto, viene descritto oltre all’effetto visibile in molti filmati che girano sul web anche le reazioni implicate.

La reazione viene effettuata mettendo 100 g di saccarosio, il comune zucchero da cucina, in un beaker a cui vanno aggiunti 100 mL di acido solforico concentrato. Mano a mano che l’acido scende verso il basso lo zucchero inizia a diventare giallo e, dopo mescolamento, si forma una sostanza nera che si espande e, se il beaker è di dimensioni adatte fuoriesce da esso.

acido solforico + zucchero

L‘acido solforico  è un forte disidratante e questa proprietà è relazionata, da un punto di vista termodinamico, alla grande variazione di energia che si ha quando esso viene idratato.

Il calore di disidratazione del saccarosio può essere calcolato considerando il calore di combustione del saccarosio:

C12H22O11(s)  + 12 O2(g) → 12 CO2(g) + 11 H2O(l)  ΔH°comb = – 5640.9 kJ/mol  (1)

e il calore di formazione del biossido di carbonio:

C + O2 → CO2   ΔH°f = – 393.5 kJ/mol  (2)

Per calcolare la variazione di entalpia della reazione:

C12H22O11(s) → 12 C(grafite) + 11 H2O(l)

Moltiplichiamo, per la legge di Hess, la reazione (2) per 12 ottenendosi:

12 C(s) + 12 O2(g)  → 12 CO2(g)   ΔH°f = 12( – 393.5) = – 4722 kJ

Per la reazione 12 CO2(g) → 12 C(s) + 12 O2(g)  ΔH°f = + 4722 kJ  (3)

Sommando la (1) e la (3) e semplificando si ottiene la reazione desiderata C12H22O11(s) → 12 C(grafite) + 11 H2O(l)

Per la quale ΔH°rxn = – 5640.9 + 4722 = – 918.9 kJ/mol

Partendo da 0.20 moli di saccarosio ovvero da circa 68 g il calore sviluppato è 0.20 ∙ 918.9 = 183.8 kJ e si ottengono 11 ∙ 0.2 = 2.2 moli di acqua

L’acqua formata dalla disidratazione dello zucchero diluisce l’acido solforico liberando calore:

H2SO4 ∙ n H2O + m H2O → H2SO4 ∙ n1 H2O

Dove n1= n + m

Per l’acido solforico concentrato n = 0.11 quindi n1= 0.11 + 2.2 = 2.3 sempre nel caso in cui le moli di saccarosio siano 0.2.

Dalla tabella dei valori della variazione di entalpia di formazione relativi a H2SO4∙ n H2O con n rispettivamente pari a 0.11 e 2.3 si ha:

ΔH°for(H2SO4∙ 0.11 H2O = – 814.87 kJ/mol

ΔH°for(H2SO4∙ 2.3 H2O = – 855.36 kJ/mol

Si può calcolare il calore di diluizione della reazione che vale – 855.36 – ( – 814.87) = – 40.58 kJ/mol

Conoscendo il numero di moli di H2SO4 utilizzato si può calcolare il calore correlato alla diluizione dell’acido solforico che va sommato a quello sviluppato dalla disidratazione del saccarosio.

La reazione è pertanto esotermica e sviluppa una discreta quantità di calore il che implica che è pericolosa specie se si considera l’utilizzo di acido solforico concentrato e quindi si raccomanda ancora una volta di non farla in casa.

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